Collettiva "Trace_Becoming Art 2012" a cura di Silvia Alfei, Spazio Inreni MangiolaLab, Milano.
INTERVISTA SUL CATALOGO 

2012: personale "HABEAS CORPUS",
Circolo delle Arti, Mariano Comense
a cura di Federica Boragina
 
Letteralmente: "che tu abbia corpo".
Il diritto di habeas corpus ha garantito, nel corso della storia, la salvaguardia della libertà individuale rispetto l'azione arbitraria dello Stato.
 
Il corpo annuncia la sua presenza nel mondo, abitando lo spazio in maniera inusuale, cambiando le regole.
Si sottrarre alla percezione di sé come oggetto, vuole essere soggetto.
Sembra chiedere: a che gioco stiamo giocando?
 
Il tempo e lo spazio si dilatano. Senza coordinate, sono entità malleabili in grado di assumere nuove forme, generate dalla fusione con il corpo, affinché anche esse
 "abbiano corpo".
 
Puro empirismo.
 
Non avere un corpo, ma essere un corpo.
 
 
2011 Collettiva "PASSAGGI" Università Cattolica, Brescia
a cura di Federica Boragina
 
 Cristina Crippa si intromette in una quotidianità che non le appartiene, osserva i ritmi che abitano le aule dell'università e il suo sguardo si ferma su elementi strutturali e accessori che sono tralasciati dagli sguardi abituati a questi luoghi. La sua modalità di "abitare poeticamente" si concretizza in un'interazione fisica con l'architettura e gli oggetti. Il corpo come forza creatrice e, al contempo, come limite della creazione. Il corpo diventa una scultura durante gli attimi in cui si cristallizza in una posizione e la fotografia lo imprigiona, per poi ricercare una nuova forma che non può prescindere dalle caratteristiche fisiche del corpo stesso. È una sfida fra l'uomo, il tempo e lo spazio: generare forme in uno spazio costretto e in un tempo limitato.
Il corpo "entra" nell'architettura e ne diventa parte (La donna che visse tre volte), si adagia sugli oggetti e attribuisce loro un nuovo significato. La percezione del mondo è stravolta, senza frastuoni, in un silenzio metafisico. Il corpo dell'artista è lo strumento per conoscere la realtà da un altro punto di vista; è esso stesso a dettare le regole della sua presenza nel mondo e non a subirle, incontrandosi con il reale casualmente. Ironicamente, si propone come "oggetto" per rendere "soggetti animati" gli "oggetti" solitamente inanimati: i trofei lasciano le mensole polverose, si "ribellano" in una processione laica, guidati da un corpo che diviene "oggetto" per ricordare di essere "soggetto" (Higitus Figitus!).
 
"CRISTINA CRIPPA O DEL CORPO PRENSILE"
Recensione di Melissa Provezza della mostra "La centralità del corpo 1" presente sul numero 9 della rivista Accademy of Fina arts.
 
La centralità del corpo 1 è titolo emblematico della mostra di Cristina Crippa (Seregno, 1982; diplomata all’Accademia di Brera) con la quale si è aperto un ciclo di esposizioni dedicato a giovani artisti e curato da Elisabetta Longari, presso lo Studio Tufano di Milano.
Nelle sue opere Cristina mette in scena la sua peculiare relazione con i luoghi e gli oggetti, meglio se incontrati per caso, come quando si cammina e ci si imbatte in qualcosa che ci chiama l’attenzione.
I mezzi privilegiati sono la fotografia e il video, che le permettono registrazioni poetiche dove, in realtà, il primo strumento di lavoro e ricerca è il suo stesso corpo.
L’artista infatti non si nasconde: nelle sue opere è presente in prima persona, con una fisicità che non cela – nelle posture e nei movimenti spontanei – l’educazione alla danza contemporanea, ad esperienze quali l’improvvisazione della contact e del teatro-danza.
A Cristina piace sorprendersi negli spazi e da questi lasciarsi sorprendere: scopre un posto, si sofferma e decide di indagarlo, posiziona la fotocamera ed aziona il temporizzatore. Rapidamente s’innesta nello spazio, vi si incunea istintivamente, senza premeditazione, senza decidere pose. Pochissimi secondi e l’autoscatto fa il suo dovere, immobilizzandola in fotografie dove il corpo acquista un’enigmatica bellezza.
Oltre a un paio di video, un libro d’artista e una videoinstallazione, in mostra ha esposto due fotografie site-specific all’ingresso dello stesso Studio Tufano e vari scatti fotografici che la vedono in ambienti urbani e non (metropolitane, strade, tetti, scale, stanze da letto, bagni).
Se un artista come il cinese Li Wei ci ha fatto conoscere modalità di innesti violenti e spettacolari nello spazio, Cristina Crippa in modo morbido si adagia, talvolta “si aggrappa” ai luoghi. Rispetto all’artista asiatico ha un rapporto con gli spazi più intimo, meno clamoroso ed eclatante e agisce in solitudine. Siamo più vicini alla poesia di una Francesca Woodman, come puntualmente sottolinea Elisabetta Longari nel testo in catalogo.
Se gli spazi non concedono spazio, se i tempi che corrono non sono clementi con un tempo interiore che vorrebbe fermarsi e dilatarsi, l’arte di Cristina Crippa sembra reclamare la necessità di appropriarsi di ciò che non ci è dato, sperimentando molteplici possibilità di occupazione, come se il corpo avesse bisogno di esplorare per esplorarsi, conoscere per conoscersi, alla ricerca di un proprio posto nel mondo.
 
2011 Personale La centralità del corpo 1. Cristina Crippa
Tufano studio 25, Milano
a cura di Elisabetta Longari
 
“Ciò che sempre parla in silenzio è il corpo”.
 Alighiero Boetti
 
V’è totale coincidenza tra identità e corpo, tra essere e corpo. Coincidenza e inevitabili sfasature. Misura, mezzo, strumento; non viviamo, non percepiamo se non con il corpo, nel corpo.
Gli autoscatti di Cristina Crippa, che contengono gli echi di una profonda e vasta cultura del corpo, sembrano partire da dove si è fermata la ricerca di Francesca Woodmann. 
Il corpo di Cristina compare e scompare, si modella su uno spazio come un polipo tra gli scogli; si aggancia e aderisce al corrimano di una scala similmente a una stella marina… Come la figura inserita in un famoso quadro di Bacon, appoggia il piede sulla maniglia di una porta; spesso assume pose acrobatiche che ricordano il teatro-danza; a volte sembra arrampicarsi su impossibili superfici lisce, come per via di certi effetti speciali cinematografici degni di Spiderman.
L’autrice individua un “set”, per lo più stanze che contengono elementi stereotipi della casa e della destinazione d’uso degli ambienti da abitare. L’uso dell’autoscatto che spesso la coglie di sorpresa, obbliga Cristina a essere a conoscenza del “risultato” solo a cose fatte; ciò implica che a volte debba insiste per ottenere ciò che cerca, mentre altre volte le capita di accogliere subito l’immagine che appare a tutta prima.
Il suo corpo - elastico, duttile, ludico- indica un’esplorazione del reale in tutte le direzioni e con tutti i sensi, mentre rivela del corpo la mortificazione sistematica cui è sottoposto dentro determinate cornici sociali. Senza addentrarsi in considerazioni su culture largamente sconosciute quali quella islamica, restando quindi in Occidente, non si può che constatare che la costrizione del corpo in posa sotto i riflettori di una vetrina lo rende sempre più oggetto agito e sempre meno soggetto agente. Sembra che l’Italia detenga a tale proposito un triste primato, soprattutto per quel che riguarda il corpo femminile. 
La componente performativa del lavoro di Cristina si esplicita anche nell’uso del video come documentazione di azioni. In particolare qui è esposto un montaggio in video di sequenze che riprendono una “doppia” passeggiata al rallenty in uno dei luoghi topici di Milano, Galleria Vittorio Emanuele. Lentamente 2 (2007) sembra funzionare in certo modo come il pendant di Needle woman (1999-2001) di KimSooja, esposto al PAC di Milano nel 2004. Mentre l’artista coreana sta ferma come un ago piantato dritto perpendicolare al terreno, secondo l’immagine suggerita dal titolo, in mezzo al fiume di folla che le scorre accanto per strada, le due protagoniste di Lentamente 2, Cristina Crippa e Cecilia Viganò, si muovono quasi impercettibilmente, regolate su una velocità “altra”, intessendo con l’intero corpo un elogio alla lentezza. Il finale a sorpresa apre l’opera al coinvolgimento altrui: sullo schermo nero passa la trascrizione delle frasi pronunciate dai passanti, raccolte attraverso le registrazioni che sono riproposte come voci fuoricampo delle persone che hanno casualmente assistito alla performance e l’hanno commentata. Le loro opinioni e impressioni danno conto dello scarto e delle sfasature tra una percezione e un’altra, tra un corpo e un altro.
 
Elisabetta Longari
 
 
2009: Mostra "Abitare il confine"
Studio Apeiron, Macherio
 
a cura di Federica Boragina
 
Cristina abita su un confine, in punta di piedi, con i muscoli delle gambe contratti, in tensione. Il movimento cresce, da dentro, lentamente, e si espande fino ad esplodere, poi si ferma, si calma appena sfiora il limite. È un gioco di possibilità: dentro o fuori, chiuso o aperto. Indagini: sguardi si insinuano in spazi sconosciuti, privati e quindi intimi, riservati; osservano oggetti, muri, stanze vuote o abitate. Storie di sguardi e sguardi su storie che evaporano dagli infissi delle finestre e aleggiano nell’aria, libere di migrare verso posti  lontani o abitare le chiuse stanze di una casa.
Che cos'è una casa? Un luogo? Forse un non-luogo. Può sembrare una tautologia, ma non lo è se ci riferiamo alla definizione di non-luogo di Michael Foucault  in merito al concetto di “eterotopia”, ossia una realtà spaziale che attua il distacco dall’abitudine. L’eterotopia ha la peculiarità di essere un luogo esistente che ospita concretamente la vita dell’uomo, ma in pratica un non-luogo, un ambiente che propone una realtà differente, estranea alla quotidianità, in cui realtà e immaginazione si fondono insieme.
La casa di Cristina è reale, c’è davvero una donna in piedi su una sedia davanti a una finestra, balla davvero davanti allo specchio eppure la sua realtà è una sur-realtà. Sopra il reale, o forse sotto, o ancora a destra e a sinistra; l’importante è guardare da un punto di vista diverso, per scrutare e carpire ciò che è celato, ciò che si nasconde dietro il confine. Vuole trovare qualcosa? Il senso? Credo che non cerchi nulla di preciso, ma cerca e questo le basta. Stratificazioni di senso da indagare attraverso i sensi. Quel che conta è l'attesa; non aspetta nessuno, perché ha capito che i Tartari  non arrivano mai. Nell'attesa ha scelto di abitare (il) con-fine, affacciata alla finestra, sulla tela. Il fine è la sovrapposizione, la stratificazione, l'osmosi intellettuale e fisica con il non-luogo, epidermide di ogni luogo. 
 
  Michael Foucault, Le parole e le cose. Un'archeologia delle scienze umane, Rizzoli, Milano, 1963, pp. 7-8
  Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, Mondadori, Milano, 1940.